L’orientamento della SCC sull’autotutela Tributaria
L’orientamento della Suprema Corte Di Cassazione sull’autotutela Tributaria
La dissertazione in epigrafe individuata si pone un duplice obiettivo. Un primo rivolto a operare una ricognizione della evoluzione giurisprudenziale di legittimità registratasi nell’ultimo decennio in tema di impugnabilità del rifiuto di autotutela in materia tributaria; un secondo obiettivo, logicamente consequenziale al primo, rivolto a offrire una possibile soluzione o contributo all’insoddisfacente ed inappagante risultato (almeno secondo la prospettiva del contribuente) cui sono pervenute la Sezione Tributaria e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che, pur riconoscendo ormai pacificamente al contribuente l’accesso alla tutela giurisdizionale di fronte ad una denegata autotutela in ambito tributario, ne limitano sensibilmente la portata poiché ritengono che il potere di riesame degli atti impositivi dell’Amministrazione finanziaria si sostanzi in un’attività del tutto discrezionale e giammai in un’attività doverosa dal contenuto vincolato, dove risulterebbero sindacabili altresì i profili relativi alla fondatezza della pretesa sottostante al rapporto controverso.
Altrimenti detto, secondo l’approdo cui è pervenuta l’alta Corte
il rifiuto di autotutela non è sindacabile in sede giurisdizionale se non limitatamente ai profili di legittimità del provvedimento di rifiuto, ossia i motivi del ricorso contro il rifiuto di autotutela non possono mai riguardare vizi dell’atto impositivo, bensì solo vizi propri del diniego, cioè motivi concernenti il comportamento dell’amministrazione finanziaria in sede di riesame dell’atto impositivo.
In effetti, in assenza di un preciso intervento del Legislatore sulla tematica in discorso, secondo un primo orientamento giurisprudenziale (individuato nell’elaborato), era stata ritenuta possibile, per il contribuente, ottenere una concreta tutela giurisdizionale nei confronti dell’Amministrazione finanziaria che fosse risultata riluttante in ordine alle richieste di annullamento di atti illegittimi o infondati, in contrasto con un interesse pubblico.
Si era, quindi riconosciuta al contribuente, a fronte del mancato esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione finanziaria, la titolarità di una situazione giuridica soggettiva rilevante (quantomeno nei casi di diniego esplicito, con o senza valutazione della sussistenza del credito fiscale) sindacabile innanzi alle Commissioni tributarie.
Ma, con gli arresti giurisprudenziali succedutisi posteriormente al 2005 ed in particolare dal febbraio 2009, prima da parte della Sezione Tributaria (Cass. Sez. trib. n. 2870/2009), poi dalle Sezioni Unite (Cass. SS.UU. n. 3698/2009 e n. 9669/2009) e, infine, dalla Terza Sezione della Corte di Cassazione, si è contraddetto se non addirittura sovvertito l’impianto delineato in precedenza per tale istituto.
Nell’illustrare, quindi, il percorso e l’approdo cui perviene il Giudice di legittimità in ordine alla tematica in questione, si descriverà come oggi si atteggia l’effettiva tutela esperibile da parte del contribuente destinatario di un provvedimento di rifiuto di autotutela emesso dall’Amministrazione finanziaria, tenuto conto anche degli strumenti offerti dallo Statuto dei diritti del contribuente.
Tanto premesso, l’attuale posizione assunta dalla giurisprudenza di legittimità (come individuata nell’elaborato), qualifica come discrezionale l’attività amministrativa di riesame esercitata in via di autotutela e, conseguentemente, ritiene che il contribuente sia titolare solamente di una situazione soggettiva di mero fatto o al più di interesse legittimo al corretto esercizio di tale attività amministrativa, finalizzata unicamente al perseguimento di un interesse pubblico concreto ed attuale alla rimozione dell’atto in base ad una valutazione di doverosità-opportunità.
L’orientamento considerato, pur affermando la giurisdizione delle Commissioni tributarie sulle questioni relative alla legittimità del rifiuto di riesame, stanti i (ritenuti) limiti di sindacabilità degli atti discrezionali, ammette dunque il relativo scrutinio solamente rispetto alla legittimità di tale rifiuto a provvedere, senza però ammettere la possibilità di un esame nel merito della questione, delimitata quest’ultima attraverso la domanda di riesame formulata in via di autotutela.
La citata conclusione sembra poi giustificata in ragione del fatto che il giudice adito non potrebbe sostituirsi all’ufficio tributario nell’adozione di un atto (pur sempre amministrativo) di autotutela. Quindi, un orientamento consolidato nella direzione tesa a ritenere l’autotutela esercizio di un potere discrezionale o, altrimenti detto, riesame a carattere discrezionale non sindacabile, nel merito, in sede giurisdizionale.
Corollario di questa impostazione è che il Giudice tributario, investito del sindacato giurisdizionale del rifiuto, diviene solo giudice della legittimità del provvedimento di diniego e giammai giudice del merito, poiché non gli è consentito di sostituirsi all’amministrazione stante la sussistente discrezionalità non sindacabile di quest’ultima.
In pratica, come sopra accennato, risultano sindacabili, in sede giurisdizionale, unicamente i profili relativi alla legittimità del rifiuto; è invece precluso l’esame della fondatezza della pretesa sottostante al rapporto controverso.
Ne consegue, secondo un’interpretazione equilibrata del soprascritto orientamento giurisprudenziale, che il Giudice tributario, qualora ritenga il rifiuto illegittimo, poiché viziato, anzitutto da violazione di legge ed eccesso di potere, ben potrà procedere ad annullare il diniego dell’Amministrazione tributaria – e/o, comunque, invitare l’Amministrazione a provvedere.
Spetterà, a questo punto, all’Amministrazione pronunciarsi sul merito della pretesa tributaria, tenendo in considerazione, questa volta, le istanze del contribuente, senza mascherarsi dietro mere ragioni formali, onde evitare di prendere posizione sul punto. Questo meccanismo, del resto, non è nuovo, ma ricalca quanto stabilito nel processo amministrativo, ove il giudice provvede ad annullare l’atto illegittimo, e spetta all’Amministrazione conformarsi alla decisione. Si è, in proposito, affermato che, dall’annullamento di un illegittimo provvedimento di diniego, deriverebbe un dovere dell’Amministrazione di provvedere positivamente sull’istanza del privato (cd. effetto “confermativo” od “ordinatorio” delle sentenze).
Le conclusioni a cui (non senza contraddizioni) giunge la giurisprudenza di legittimità come richiamata – pur nell’esplicito riconoscimento che il sindacato sull’esercizio del potere di autotutela pacificamente costituisce un procedimento autonomo e ben distinto dal procedimento d’impugnazione dell’atto impositivo, con cui non interferisce; come pure nella precisazione che tale sindacato non costituisce mezzo di tutela del contribuente sostitutivo degli ordinari rimedi giurisdizionali – fanno sorgere il legittimo dubbio in ordine ad un definitivo ed esaustivo esaurimento della questione di cui si tratta.
Cioè, viene quindi da domandarsi se gli arresti giurisprudenziali in discorso possano costituire un approdo definitivo, ovvero se si possa anche delineare la possibilità di un sindacato, e perciò di una tutela giurisdizionale, che involga altresì il merito del rifiuto di riesame, consistente cioè in uno scrutinio relativo al rapporto giuridico d’imposta così come sotteso rispetto alla domanda di riesame, peraltro in aderenza a quanto più volte stabilito in passato in ordine all’inquadramento della funzione del Giudice tributario, laddove lo si è sempre qualificato come giudice sia dell’atto che del rapporto.
Difatti, secondo una visione sistemica dell’ordinamento giuridico e, più specificamente, anche dell’ordinamento tributario sostanziale e processuale, l’orientamento della giurisprudenza di vertice propone, dunque, uno scenario contraddittorio.
Alla riconosciuta possibilità, per il contribuente, di ottenere, in presenza di diniego di autotutela avverso un atto illegittimo o infondato, il risarcimento del danno da parte dell’Amministrazione finanziaria, innanzi alla giurisdizione ordinaria, fa da contraltare la preclusione ad adire le Commissioni tributarie, per impugnare il predetto diniego nel merito.
Se, come ci è sembrato, è indubbio che le sentenze emesse nel corso dell’ultimo decennio, in materia di diniego di autotutela tributaria esprimano, tutte, un unico dato concorde, cioè la riconduzione nell’alveo delle Commissioni tributarie delle fattispecie interessanti l’autotutela tributaria, è, parimenti, illogico che, allo stesso tempo, venga negata l’impugnabilità del diniego nel merito e ammessa la risarcibilità del danno ad esso conseguente, innanzi a due giurisdizioni differenti.
Il tutto, peraltro, in palese violazione del principio di economia processuale (art. 113 Cost.) che come noto impone di evitare la promozione di nuovi giudizi che rimettano in discussione lo stesso bene della vita.
Ma, soprattutto, un controllo del Giudice tributario limitato alla sola legittimità non è conforme alle disposizioni di legge, né del Regolamento n. 37/97, che nel disciplinare le fattispecie meritevoli di intervento in autotutela hanno previsto esclusivamente ipotesi di vizi da ricondurre alla categoria sul presupposto dell’imposta (art. 2 reg.to), né infine alla più recente giurisprudenza di legittimità in tema di risarcimento danni da mancato annullamento in autotutela.
È come se, in qualche modo, si volesse sconfessare l’unico dato incontrovertibile al quale si è faticosamente pervenuti nelle conclusioni di tutte le sentenze esaminate, vale a dire la riconduzione della tutela giurisdizionale, in caso di diniego di autotutela, nell’alveo delle Commissioni tributarie.
Non ci sembra che tale punto di vista possa essere accettato, soprattutto alla luce della nuova impostazione attribuita alla giurisdizione delle Commissioni tributarie, confortata dal dato giurisprudenziale e da quello dottrinario.
La particolare situazione che si è determinata sollecita una ulteriore riflessione.
I principi sottostanti alle conclusioni della Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione, in base ai quali risulta condannata l’Agenzia delle entrate al risarcimento del danno, sono, prevalentemente, di stampo civilistico; tuttavia, riteniamo che siano stati osservati, anche, altri principi che giustificherebbero il ricorso alle Commissioni tributarie avverso il diniego (espresso o tacito) di autotutela.
Non c’è dubbio, infatti, che, innanzi a queste fattispecie, si debba sempre tenere conto del principio di capacità contributiva che, in quanto principio costituzionale e, quindi, superlegislativo, deve necessariamente ispirare l’operato di qualsivoglia Autorità giudiziaria.
Non si può tralasciare, poi, il dettato dell’art. 97 Cost. che impone alla pubblica Amministrazione e, quindi, anche a quella finanziaria di agire con imparzialità e di garantire il “buon andamento”.
L’interesse dell’amministrazione finanziaria è riscuotere tributi conformi al principio di capacità contributiva, non realizzare entrate sfornite di causa.
In ambito tributario, peraltro, s’impone anche il rispetto dei principi contenuti nello Statuto dei diritti del contribuente, in particolare, dell’affidamento e della buona fede.
Innanzi ad un atto illegittimo o infondato che si ponga in contrasto con un interesse pubblico e sia stato posto in essere dall’Amministrazione finanziaria, la violazione dell’art. 53 Cost. è incontrovertibile ed è altamente ipotizzabile il contrasto con il successivo art. 97.
Conseguentemente il rispetto dei principi sopra enunciati, contribuisce ad affermare che non si possa disconoscere al contribuente il diritto ad ottenere piena tutela giurisdizionale in caso di diniego di riesame del provvedimento illegittimo e/o infondato in autotutela.
Ed in questa direzione risulterebbe apprezzabile riconoscere spazio ad una piena tutela giurisdizionale innanzi a fattispecie in cui sussistano eventi sopravvenuti, ius superveniens oppure omesse valutazioni, nell’ambito dell’istruttoria relativa al provvedimento di primo grado sottostante al rifiuto di autotutela, di elementi incidenti sull’an o sul quantum debeatur della maggiore obbligazione tributaria contestata.
Si tratta, a ben vedere, di soluzione compromissoria dove trovano sintesi e contemperamento opposti interessi e, segnatamente, da una parte, quello della perentorietà dei termini di impugnazione e del divieto di duplice tutela, e dall’altra, quello del giusto prelievo operato in funzione dei superiori principi costituzionali tributari degli artt. 3 e 53 della Carta costituzionale.
Limitando, pertanto, nei predetti termini la causa petendi di un ipotetico giudizio, nel merito, sul rifiuto di autotutela, dovrebbero ritenersi superate altresì le preoccupazioni di una “doppia tutela” giurisdizionale sugli atti di imposizione, prima con il ricorso avverso l’accertamento e, poi, con l’impugnazione del rifiuto di procedere all’annullamento in autotutela poichè, a ben vedere, l’oggetto del giudizio si sposterebbe, dalla primigenia fattispecie impositiva, all’accertamento dell’idoneità degli eventi (in fatto o in diritto) originariamente non valutati o perché sopravvenuti, o perché fatti valere dal contribuente dopo l’intervenuta definitività ad incidere in via impeditiva o estintiva sulla pretesa dell’ufficio.
Da ultimo, la valutazione logico-sistematica dei dati dottrinari e giurisprudenziali, inoltre, conduce a concludere che l’Autorità giudiziaria competente debba necessariamente essere rappresentata dalle Commissioni tributarie.
Ciò in quanto il criterio di riferimento ratione materiae appare, ormai, incontrovertibile.
Una questione così complessa meriterebbe, pertanto, che la parola fine fosse pronunciata dalle Sezioni Unite, nonostante la difficoltà di conciliarne i diversi orientamenti interni, al fine di delineare un indirizzo univoco che appare più che mai necessario.
Indirizzo univoco che però dovrebbe essere necessariamente coerente con quella impostazione di fondo secondo la quale sia il processo tributario che il procedimento tributario risultino sempre strumenti volti ad assicurare la corretta attuazione della norma impositiva che, a sua volta, nella dimensione sostanziale, è finalizzata ad attuare il concorso secondo il principio della giusta imposta.
L’interesse dell’amministrazione finanziaria è riscuotere tributi conformi al principio di capacità contributiva, non realizzare entrate sfornite di causa.
– Dott. Luca De Rosa.
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